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mercoledì 22 ottobre 2008

R.P.

Nel 2001 mi rubarono il portafoglio in ufficio. E chissenefrega, potreste dire voi. Le conseguenze di questo fatto, però, sono davvero notevoli e anche esilaranti, per cui ve le racconto.
Intanto fu già comico il modo in cui il ladro – sono quasi sicuro che fosse un uomo - usò la carta di credito: spese quasi un milione (c’erano ancora le lire) in un salone di bellezza, in meno di due ore; e quanto mai sarà stata brutta, la sua bella… Si comprò anche uno stereo, e poi esaurì quello che restava del plafond in buoni benzina.
Io feci la denuncia, riebbi quasi tutti i soldi dall’assicurazione, mi rifeci i documenti e pensai di poterci mettere una pietra sopra… E invece era solo l’inizio dell’incubo.
Dopo pochi mesi, mi arriva una convocazione dai carabinieri: vado e mi contestano una truffa a una concessionaria che aveva fruttato al truffatore una Porche da duecento milioni. Un tizio con i miei documenti, infatti, aveva trovato il modo di farsela consegnare dietro un anticipo ridicolo, e poi era sparito. Mi ci volle una mezza mattinata per convincerli che il tizio non ero io, nonostante la regolare denuncia di furto che avevo fatto all’epoca e la misera Peugeot 106 carta da zucchero parcheggiata appena fuori la caserma.
Da quel giorno, la capatina dai carabinieri divenne un’abitudine, tipo quelle gite culturali che uno si concede una volta ogni due o tre mesi; e siccome li pagano per essere sospettosi, i carabinieri, quelli interpretavano ogni volta al meglio il loro ruolo di probi tutori dell’ordine e mi torchiavano per un paio d’ore. Tra l’altro non erano mai gli stessi, per cui mi sono anche fatto una bella cultura sugli arredi interni delle caserme di mezza Roma e parte della provincia.
Finalmente, dopo un quattro anni dal fatto, arriva una convocazione che solo in apparenza era come tutte le altre: mi presento alla caserma di Tor di Quinto, mi fanno accomodare in sala d’attesa e… non succede più niente.
Io ho fretta di tornare al lavoro, comincio a sbuffare, passeggio nervoso, do chiarissimi segni di insofferenza, ma niente. Insieme a me attende una coppia di persone di una certa età, sono un po’ più pazienti di me, ma insomma, anche loro alla fine si innervosiscono. Chiamiamo il piantone – a vederlo pareva che avesse dodici anni -, facciamo una mezza scenata, quello si mortifica e diventa piccolo piccolo, farfuglia che il maresciallo è stato bloccato da un imprevisto, un’ispezione improvvisa, diventa tutto rosso, ci inteneriamo e lo lasciamo stare, ormai rassegnati al nostro destino. Ci rimettiamo seduti, siamo lì da quasi due ore, che fare?
Chiacchieriamo, io racconto la mia disavventura e loro fanno lo stesso; sono anche loro vittime di una truffa, hanno una pellicceria e si sono fatti abbagliare da un signore rispettabilissimo all’apparenza, molto elegante, accompagnato da una bambina – ispirano sempre fiducia -, che si è portato via venti milioni di pellicce pagando con assegni che quando la signora è andata in banca a versarli è stata trattata come se fosse lei, la ladra, e il cassiere ha pure chiamato i carabinieri. Adesso sono qui per chiarire questa storia e raccontare la loro versione dei fatti; il conto l’hanno chiuso, erano clienti da anni ed essere trattati in quel modo, insomma…non gli è garbato molto.
E chiacchieriamo per un’altra ora e mezza, alla fine ci rilassiamo, quasi ci scordiamo pure perché siamo lì, sospesi in quel limbo – una stanza squallidissima arredata con due panche di legno e un tavolo decrepito – in attesa che qualcosa succeda…
E infine la nostra attesa è premiata: appare il maresciallo, che si scusa, arrossisce pure lui, è costernato, eccetera eccetera; convoca prima la coppia, e restando da solo ho il tempo di pensare, e finalmente capisco: questi immensi bischeri hanno voluto fare un confronto all’amatriciana tra truffati e presunto truffatore, perché evidentemente non se l’erano mai levato dalla testa il sospetto che in realtà fossi stato io ad architettare tutto, compreso un falso furto di documenti. Quasi quattro ore mi hanno lasciato a bagnomaria con quei due poveracci, perché evidentemente una mezz’oretta non gli bastava. Quando vedo la coppia allontanarsi entro furente dal maresciallo, ma figuratevi se quello era disposto ad ammettere la furbata: è stato un caso, sì certo che il truffatore era lo stesso, ma io non dovevo assolutamente pensare a quello a cui avevo pensato, e poi in fondo mi doveva dare una buona notizia, l’avevano appena arrestato; non aveva confessato, ma le prove erano tali da poterlo inchiodare; tra le prove essendo compresa, suppongo, la pagliacciata di quella mattina, con me protagonista. Rapida consultazione telefonica con l’amico avvocato – Ma che voi denuncià, ma che sei scemo? Quello nun c’ha ‘na lira, co’ che te paga? Va affinì che paghi tu a me, e a te nun te paga nessuno.
Vabbè, OK, dico, lasciamo stare la cosa così. Non lo denuncio, basta che quest’incubo finisca qui.
Ma è un pia illusione: a febbraio di quest’anno (2008, sono passati sette anni dal furto) mi arriva una convocazione in tribunale, quale teste a carico di tale R.P.; presentarsi il giorno X, all’ora Y, a piazzale Clodio. Punto.
Ohibò, ma chi è R.P.? E io che ne so delle sue eventuali malefatte? Provo a informarmi, ma è assolutamente impossibile: nella convocazione non c’è un numero di telefono, un ufficio informazioni, niente. Non resta che andare al buio, e così faccio.
All’ingresso della palazzina, dove accedo dopo fila, raggi X e perquisizione, c’è un gabbiotto con su scritto “Ufficio informazioni” e poi, sotto, un cartello: “Chiuso per guasto tecnico”. Si sarà rotta la sedia? Comunque capisco l’antifona, rinuncio alle informazioni e vado direttamente in aula. Sul mio documento c’era scritto di presentarsi alle 11, e infatti a quell’ora arriviamo, puntuali e tutti insieme, una mandria di testimoni. E che avrà fatto mai, R.P.?
Ma è solo che loro i testi li convocano all’ingrosso, poi decidono lì per lì da quale processo cominciare, e il mio naturalmente è l’ultimo. In tribunale non c’ero andato mai, devo dire che quella mattina mi sono fatto una autentica cultura di penale. L’unica cosa che non capivo era perché non si pronunciasse una sentenza che era una, ma solo rinvii. Una volta mancava un teste chiave che era in ospedale, un’altra volta c’era un vizio di forma, e poi invasioni di cavallette, inondazioni del Tevere, atterraggi di UFO, qualsiasi cosa fosse idonea a impedire il pronunciamento.
Quando è toccato a me, il rinvio è arrivato ancora prima di cominciare: il cancelliere si è alzato e ha annunciato che R. P. (ma chi sarà mai costui?) non c’era – giustamente, ci ha tenuto a dire – perché lui aveva eletto domicilio presso l’avvocato Leguleio Azzeccagarbugli, ma aveva scelto come difensore l’avvocato Codicillo Azzeccagarbugli, e proprio all’indirizzo di quest’utimo era stata inviata la convocazione, non al domicilio eletto, per cui R.P. era assente (giustificato) per colpa del cancelliere (che era lui che stava parlando). E non potevasi procedere.
Sfatto e scoraggiato mi avvio all’uscio, inseguito però dal pubblico ministero che mi riconvoca a voce per il 17 ottobre, cinque mesi dopo. Ma non mi dice chi sia R.P., né cosa abbia fatto. Uscendo, però, vedo un tizio che mi pare di conoscere; lo avvicino, gli chiedo se pure lui si trovasse lì per R.P. e quello mi dice sì, è lui che l’ha arrestato. Allora guardo meglio e lo vedo, sì, è proprio il maresciallo di Tor di Quinto, così adesso finalmente so chi è R.P., e soprattutto cosa ci si aspetta che io dica.
Premesso che in tutto questo tempo più nessuna convocazione – nemmeno un memo – mi è giunta, il 17 ottobre mi sono ricordato per miracolo che dovevo tornare in tribunale. Solita trafila: perquisizione, raggi X, gabbiotto delle informazioni ancora “Chiuso per guasto tecnico” – e quanto ci vorrà mai ad aggiustare una sedia! – e nessuno che mi sappia dire dove devo andare. Per fortuna mi ricordo dove sono andato l’altra volta, e per puro culo l’aula del processo è ancora quella. Ma non si farà il processo, dice il cancelliere, perché è sciopero, appunto, dei cancellieri. – E allora lei che ci fa qui? – Ma per dire ai testi e al pubblico ministero (una vera bellezza, almeno questo lo devo dire) che sono in sciopero, non è chiaro? A me tanto chiaro non è, però lui pare convinto, e tocca abbozzare. Me ne vado, ancora più sconsolato della volta precedente. Non so nemmeno quando dovrò tornare, perché se lo voglio sapere devo aspettare almeno un’altra ora che scenda il giudice. Per le scale mi si affianca una fata. Non è il PM, è ancora più bella, si presenta come il nuovo avvocato di R.P., non capisco cosa voglia, facciamo qualche rampa di scale insieme, mi parla come se fossi un teste a discarico, invece del principale teste dell’accusa. Mah. Mi saluta, se ne va sculettante nel suo tailleur. E io resto lì con una domanda, una sola, che non ho il coraggio di pregarla di porre per me al suo assistito, a R.P.: ma quei quattro milioni che m’hai fregato non me li potevi chiedere, che io te ne davo pure il doppio e la Porche te la compravo io, pur di evitare questa persecuzione?
Naturalmente, alla fermata dell’autobus scopro che è sciopero pure dei mezzi pubblici. Taxi manco a parlarne, il lavoro aspetta e impelle. Da piazzale Clodio a Via Nazionale saranno buoni quattro chilometri. Indovinate un po’ come se li è fatti il vostro GPZ? R.P., R.P…. se solo potessi averti tra le mani...

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