Ciao! Per un po' non aggiornerò il mio blog, ma so tutto di te...

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martedì 29 settembre 2009

Lost in woods

Ma insomma, non interessa a nessuno sapere come è andata a finire l’avventurosa corsa del Gattopuzzo nei boschi di Sua Maestà Elizabeth?
E io ve lo dico lo stesso. Con una notizia buona, almeno per me, che già avrete intuito: scrivo, ergo sum (vivo)! E non sto nemmeno granché acciaccato… Ah, le infinite risorse della stirpe dei gattopuzzi, ormai ridotti ad un solo esemplare eccetera eccetera. Del resto, com’è che recita la presentazione del GPZ in questo blog? "[…] Il Gattopuzzo è un animale un po' puzzola e un po' faina, una creatura dei boschi che si è urbanizzata. Uno spirito vagabondo […]. Sa mimetizzarsi molto bene nell'ambiente urbano, ma in fondo all'anima rimane uno spirito selvatico".
E allora c’era da aspettarselo, che nella selva lo spirito silvestre che muove il Gattopuzzo lo avrebbe preservato e conservato.
Lo stesso non vale per Mustafà, che in realtà si chiama Feisal e non è libanese ma arabo di Ryad.
Mustafà-Feisal, che è alto e in evidente soprappeso, fuma un pacchetto abbondante di sigarette al giorno, beve come un cammello e tutte le mattine si presentava al corso con non meno di due ore di ritardo, gli occhi rossi, la barba lunga e l’aspetto molto stropicciato. Cosa facesse la notte, in quel posto desolato e remoto, per me è un mistero. Io in realtà non avevo fatto molto caso a queste sue abitudini, diciamo così, un po’ in contrasto con l’immagine dell’atleta che pretendeva di essere. Però le abitudini sono subito saltate fuori a presentargli il conto, perché non abbiamo fatto in tempo ad imboccare la via del bosco che ho cominciato a sentire, alle mie spalle, un ansimare come di mantice sfiatato. Io andavo piano per due motivi, il primo essendo che la finlandese è spirito caritatevole e, avendo capito con chi aveva a che fare, aveva rinunciato all’allenamento veloce, e il secondo che io, veloce, proprio non sarei stato capace di andare. Andavo piano, sì, ma Feisal sembrava lo stesso che stesse faticando a trattenere l’anima tra i denti. Uno si immagina un orgoglioso osservante fedele musulmano mondo dalle zozzerie che ti minano il fisico, così come prescrive Mohamed (sempre sia gloria al nome suo), e invece questo qui era tutto intossicato e grigio in faccia e pure quando sudava dava l’idea di star secernendo qualcosa di malsano. Fatto un mezzo chilometro, la più che caritatevole Mareit decide per una sosta, con la scusa di dover decidere che direzione prendere. Con il senso dell’orientamento che contraddistingue la razza dei Gattopuzzi (ormai limitati nella speciazione ad un solo esemplare eccetera), io sentenzio che it’s late, and if we don’t want to stay too long in the woods we should go left, because that path is clearly a small ring that will lead us back to the hotel. Ottenuto il consenso generale, prendiamo quindi a sinistra ormai camminando, la maratona boschiva trasformata in passeggiata da casa di riposo per non ammazzare anzitempo il probo suddito di re Fahd. L’orgoglio dell’Islam continuava però a dare segni di imminente soffocamento, per cui, non volendo dannarci in eterno provocando la prematura ascesa in cielo di un probabile futuro santo imam, procedevamo con andatura da ottuagenari, fingendo di essere incantati e rapiti dalla bellezza dei paesaggi per non metterlo troppo a disagio. E i paesaggi belli lo erano davvero: castagni, querce , faggi, tutti i colori dell’autunno, le sfumature dal giallo al rosso acceso, un silenzio cosmico interrotto solo da cinguetti e fruscii di foglie smosse nel sottobosco da una quantità stupefacente di leprotti che si aggiravano indisturbati in quel paradiso silvestre. E ogni tanto qualche casetta qua e una là che non solo non davano nessun fastidio, ma parevano quelle degli hobbit e avevi l’impressione che se bussavi si sarebbe affacciato Bilbo Baggins ad offrirti una fetta smisurata di torta di mele.

E invece non c’era anima viva, dal che si arguiva che ad abitare quelle dimore dovevano essere gli sfuggenti elfi, che senza dubbio ci stavano osservando nascosti sotto il nostro naso eppure invisibili alla gente grossolana come noi (la gente grossa, ci chiamano loro). Perso nelle fantasticherie, ogni tanto il fischio allarmante che scaturiva dai polmoni di Feisal mi riportava alla realtà, non essendoci nell’epopea del Signore degli Anelli alcun treno a cui attribuire un siffatto suono, così da poterlo inglobare nella mia fantasia. Oddio, volendo ci sarebbero stati i draghi, ma quelli mi avrebbero rovinato la pace interiore che lo spettacolo della natura mi ispirava, e avevo deciso di far finta che non esistessero (far finta… esistessero… anche il mio stato mentale non doveva essere proprio del tutto alieno da alterazioni).
Fantastica che ti fantastica, seguivamo quasi in silenzio questo public footpath le cui indicazioni erano un intrico di frecce che puntavano pressoché ovunque: a destra, a sinistra, a destra e sinistra insieme e una perfino verso l’alto, prova evidente che il footpath era stato in effetti pensato per essere percorso anche a dorso di drago. Specie della quale due cuccioli (ma forse erano orchetti) in forma di molossi si sono festosamente parati davanti ai nostri occhi quando, non si quando non si sa come, ci siamo ritrovati a calcare la morbida erbetta del giardino di una villa, deserta pure quella.
Segue la scena della nostra precipitosa e velocissima retromarcia, con momentanea incuria delle condizioni di salute del sublime principe del regno di Saud. Di nuovo ci ritroviamo nel bosco, e di nuovo attraversiamo il borghetto degli hobbit, altro non sapendo fare se non tornare indietro. Il buio avanza e si sa, in quelle lande la notte uno può incontrare le Mortombre e chissà quali altre creature demoniache, per cui non è prudente (e soprattutto è scomodo) decidere di passare la notte nei boschi, al freddo, a digiuno e senza materasso quando un paio di chilometri più in là – solo a sapere dove, porca putt… - c’è l’albergo che ti serve la pappa, il sidro e ti fa dormire sotto le calde coperte dopo una corroborante doccia. Alla fine Mareit ha l’illuminazione, e decide di bussare alla porta di una delle casette. Al che, non so perché, la scena mi è cambiata e al posto del Signore degli Anelli mi sono ritrovato nel mondo di Hansel e Gretel, improvvisamente certo che quella casetta fosse di marzapane e ne sarebbe uscita una vecchina che era in realtà una perfida strega che si era già mangiata tutti i vicini di casa, il che spiegherebbe perché lì intorno c’erano tante case, ma non anima viva.
E invece, dopo una lunga attesa, ne è uscito un signore inglese, ma di un inglese che voi non avete idea. Non sto nemmeno a descriverlo: pensate a un inglese, non uno qualsiasi ma l’ur – inglese, l’archetipo, l’idea platonica di inglese, e quello era lui. Che, molto, gentilmente, ci ha fatto presente che: 1) avevamo scelto il sentiero sbagliato, perché se volevamo tornare in albergo dovevamo prendere a destra, non a sinistra, e 2) avevamo fatto talmente tanta strada in quel bosco che a tornare indietro ci avremmo messo non meno di una mezz’ora abbondante, col buio che avanzava.
E così è stato: uscimmo a riveder le stelle, per dirla con il Poeta, quando le stelle in cielo c’erano quasi per davvero, dopo due ore di vagabondaggio silvestre, con il povero Feisal ormai incapace perfino di lamentarsi e talmente grigio in faccia da essergli passata pure la voglia di fumare.
La sera, al bar, dopo una cena abbondante, l’ho trovato con in mano una bottiglia di sidro e - ovviamente! - una sigaretta in bocca, felice come uno scampato da Pearl Harbour, e quando gli ho fatto - Feisal, if we want to go again tomorrow, it may be better if you smoke less - lui mi fa - No, no… the problem, today, was that I am a little tired… you know, the jet lag…
Ma un buon musulmano, oltre che dal bere e dal fumare, non dovrebbe astenersi anche dalle cazzate?

martedì 22 settembre 2009

Il talento del Gattopuzzo

Era passato un po' di tempo dall'ultima volta che il Gatopuzzo aveva varcato le patrie frontiere, per cui capirete che non senza trepidazione ho intrapreso questa nuova trasferta in terra di Albione.
Tre anni fa il bilancio fu insuperabile, tra gag piu' o meno (in)volontarie e duelli rusticani all'ultimo bicchiere di cabernet col professore di finanza; anche l'anno scorso non ando' male, con la corsa dei kart (adegutamente documentata qui) e dieci giorni di uscite a teatro e cene di gala, con la corsa delle scimmie a fare da gran finale. Stavolta l'uscita si e' presentata subito in tono minore: invece che a Londra, mi hanno spedito in questa amena campagna inglese tanto poetica, piena solo di silenzi e di fruscii di fronde, di cinguettii e di squittii, di boschi folti che a inoltrarsi un po' uno pensa di poter incontrare Gandalf e con lui tutta la Compagnia dell'Anello. Insomma, Wotton House: una specie di carcere soft dove, finite le ore di lezione, uno davvero rischia il suicidio per noia. Figuratevi che per la disperazione oggi pomeriggio mi sono messo le scarpe da ginnastica e, contravvenendo alla regola aurea a cui ho consacrato quarantaquattro anni di orgogliosa sedentarieta', sono andato a correre tra sentieri, prati e boschi.
E qui ho avuto la prova che la classe, davvero, non e' acqua, e il talento del Gattopuzzo per i guai puo' al massimo appennicarsi, ma eclissarsi giammai.
Uscendo dalla corte della dimora che potete ammirare in foto
e che ci ospita, intravedo la signora finlandese che segue il corso insieme a me in tenuta analoga alla mia ma piu' figa, e da tutt'altra parte indirizzata: alzo il braccio in segno di saluto e la abbandono ai sentieri suoi. Avevo gia' avuto modo di incontrarla ieri sera, sempre bardata per il cimento podistico, mentre io meno pretenziosamente passeggiavo per prati e boschi e rientravo precipitosamente all'apparire minaccioso e ululante di un pastore tedesco e altri due orchi (di razza non identificata per eccesso di velocita' di fuga). Avevo avuto modo di ammirare l'incedere fiacco della madama, nonche' la brevita' della performance, che mi aveva fatto gonogolare al pensiero di non essere l'unico a pretendere di chiamare jogging quel penoso trascinarsi in giro in mutandoni.
Schivati i cani, a cena me la ritrovo accanto.
- Hi Maurizio, I saw you going out for jogging, before dinner...
- Oh, yes... I had a very pleasant trip between fieds and woods, it was wonderful (se e' detto bene non lo so, ma questo e' l'inglese che parlo io e questo le ho detto. E comunque lei ha capito).
- I ran in the courtyard, instead... I had fear to go alone in the woods... But it was so boring running in a ring...
E qui che poteva combinare il Gattopuzzo? Per generosita', certo... E un po' per vanagloria, ma diciamole queste cose: - Oh, Maria, don't worry... If you want, tomorrow we can go together!
- Really? You are very kind! At six o'clock?
- At six o'clock.
- I am very happy about this, you know, I have to respect my training program, otherwise I will not be allowed to run my next Marathon....
Gelo per la schiena: - Marathon?
- Oh, yes, next month, in Helsinki, I will run with my team, We do it every year!
- (tra me e me) ma porca puttana, va bene che me la sono andata a cercare, ma proprio una maratoneta mi doveva capitare? A me, che se corro mezz'ora di fila gia' grido al miracolo... But... Maria, yersterday I saw you running very, very slow...
- Yes, it is a part of my training program, but don't worry, tomorrow I will start the new part, in which I have to run very very fast!
- (Ah, allora... )
E mentre sacramentavo in sanscrito, ecco che si aggiunge il libanese, li', come minchia si chiama, vabbe', facciamo Mustafa': - wonderful! I am used to run every day! May I come with you?
E all'unisono, ma con espressioni opposte (uno afflitto, l'altra esultante), io e Maria: - of course, Mustafa', of course!... (il punto esclamativo e' della finlandese, i puntini sono miei).
E adesso eccomi qui, come Galois la notte prima del duello, a scrivere febbrilmente affinche' resti di me quello che ho fatto, quello che ho pensato... E chissa' perche' a me non viene fuori una emerita ceppa, mentre quello li' scrisse un trattato di matematica superiore in una notte, prima di accomiatarsi da questa valle di lacrime per opera di un marito geloso, o forse dei servizi segreti, insomma almeno in modo romantico, cosa che non tocchera' a me, precocemente stroncato da due podisti forsennati in mezzo ai boschi inglesi, lontano da casa, dalla mia cucciolotta con tutti gli annessi e connessi... Ma non vi fa un po' pena il Gattopuzzo? E pero', se contro ogni pronostico avessi a sopravvivere, me lo fate il favore di rintuzzarmi, da oggi in poi, ogni volta che faccio pipi' fuori dal vasino?

lunedì 25 maggio 2009

Ciao, nonno

Ascoltando Radio 24 ho scoperto l'esistenza di un progetto bellissimo, che è la banca della memoria. Si tratta di un sito che raccoglie materiale - soprattutto interviste - a persone anziane che hanno qualcosa da raccontare. E quale persona anziana non ne ha? Un vecchio che muore è una biblioteca che brucia, dice un vecchio proverbio africano. Purtroppo oggi di biblioteche ne stiamo lasciando bruciare a migliaia, senza fare granché per preservarle, per cui questo progetto mi pare davvero meritevole. Ma se volete saperne di più, andate alla fonte: http://www.bancadellamemoria.it).
C'è una sezione del sito in cui il visitatore è invitato a postare un ricordo di un nonno, e di questa occasione sono davvero grato: mio nonno è una delle persone che più ho amato, e purtroppo mi ha lasciato che ero ancora bambino; stranamente, non mi era mai venuto in mente di scrivere su di lui. Ora ho colmato la lacuna, e il suo ricordo lo propongo anche a voi. Non è un capolavoro, ma per me è davvero una perla. Ciao nonno, è passato tanto tempo, ma mi manchi ancora. Mi mancherai sempre.


Nonno Emanuele era un vecchio alto e secco dagli occhi azzurri, con una piega all’angolo della bocca sottile, come una smorfia. Per tutta la vita pastore, in gioventù quasi mai aveva dormito dentro una casa: capanne e grotte, nel buio, al freddo, alla pioggia, in un tempo oggi così remoto da sembrare di fiaba, in quell’Abruzzo aspro che gli aveva modellato il corpo, nodoso e severo. Un anno dopo l’altro, sulla montagna dietro alle greggi, e poi transumare: Puglia, Agro Pontino, campagna romana, dove infine eresse l’ultima capanna, che diventò casale e infine casa per quattro figli trapiantati, la più giovane sposò un fabbro che fece di lui mio nonno. Io giocavo sulla scalinata fiorita della capanna ormai sbocciata in una linda casetta e lui raccontava, mai stanco; la voce sommessa e continua, quasi assorto, pareva parlasse tra sé e invece gli urgeva di incidere in me, come con il coltello nella corteccia di un tronco giovane, la memoria dei suoi cieli e dei suoi pascoli, e di un dolore antico, mineralizzato nelle ossa di una stirpe di faticatori senza nome, il dolore dei poveri di ogni tempo. Parlava e parlava, le parole fluivano dalle sue labbra inseguendosi l’un l’altra, come l’acqua di un ruscello che scavalchi una roccia dopo essere sceso dai picchi innevati giù, sempre più dentro alle valli ormai ombrose della sua memoria. Io ascoltavo del cane Morgante, il coraggioso cacciatore di lupi, del possente toro Colonna che portava in groppa il nonno bambino e che durante la grande guerra era diventato carne da sbobba per l’esercito; in silenzio raccoglievo in me tutta la poesia del vecchio pastore che scioglieva la sua vita calante in un inno appena mormorato agli alberi, alla roccia, all’erba, al sole e alla neve. Di poesia traboccava, quel vecchio mite che nella vita vagabonda aveva sempre portato nella bisaccia pane, vino, formaggio e due libri consunti: Orlando Furioso, Gerusalemme Liberata. Furono quelle le mie favole: non Biancaneve o Cenerentola, ma la spada Durlindana, l’Ippogrifo, Astolfo sulla Luna, il senno perduto di Orlando, l’armi pietose e il capitano… Quando se ne andò fu lieve. Disse di lui un poeta che non ha peso, la semplicità.

venerdì 27 febbraio 2009

Ti va di correre?

Questo lo capiranno in pochi, perché a pochi è indirizzato. E' un regalo di benvenuto, e un saluto entusiasta a Luca e Marilena. Spero solo di essere stato all'altezza. Buona lettura!

- Ti va di correre fino a là? –
T., che se ne stava raggomitolato a contemplare il vasto mondo, sollevò appena il capino e ricambiò con uno sguardo poco convinto.
- Adesso?
- E quando, sennò? – ribatté spazientito l’altro – Quando gli altri si saranno presi tutto?
- T. si stirò, pigro. – Vedi, anch’io quando ho visto tutto quel bailamme mi sono incuriosito… Ma che ci sarà mai laggiù? Poi, però, ho pensato che non sarei mai arrivato in tempo in mezzo a tutto quel macello, mi avrebbero travolto, e alla fine sarei potuto arrivare solo… come dire?
– Per una botta di culo? – rispose l’altro, sempre più impaziente.
- Ecco, sì, io non mi sarei espresso in termini così poco urbani, ma insomma… E’ quello che intendevo.
- E allora cosa vuoi fare? Aspettare che inventino il teletrasporto?
T. guardò stupito l’importuno interlocutore: - ma che dici… ma non lo sai che l’entanglement…
- Lentangleche? – fu la risposta immediata del tipo smilzo, che cominciava a pentirsi amaramente di aver pensato di coinvolgere nel gioco un compagno così improbabile.
T. sospirò: ma come era possibile che la gente trovasse tanto normale sguazzare nell’ignoranza? Poi attaccò, con il tono paziente del professore che spiega un concetto elementare ad un alunno un po’ tardo di comprendonio: - l’entanglement… insomma, il teletrasporto (oddìo che sto dicendo, non è esatto, non è esatto… ma questo non capirà mai se non mi esprimo al suo livello)… Il teletrasporto è possibile, ma non in senso fisico… Quella che viene teleportata è l’informazione, ed inoltre la cosa avviene solo in termini di probabilità…
- Insomma – interruppe l’altro – funziona a casaccio, OK? Non sei mai sicuro che quello che spedisci arrivi poi come l’hai spedito… Magari tu pensi di inviare un mazzo di rose rosse e di là arriva un cesto di pesce marcio!
T. lo guardò stupefatto: - Beh, semplificando molto… è un po’ impreciso, dovremmo parlare di bit di informazione, non di rose e pesci, ma… sì, più o meno è così.
- Ecco, allora, visto che il tuo entl… entlgl…
- Entanglement.
- Eh, sì, quella roba lì! Visto che non funziona, ti va o no, per l’ultima volta, di alzare le tue chiappette e andarci in modo più convenzionale, laggiù?
T. era sempre più stupefatto: non era poi così scemo il tizio, più che altro sembrava divorato da una frenesia che gli impediva di mettere a punto ben chiari, lineari, i suoi stessi pensieri… Però cavoli, quant’era veloce! Di mente e di fisico: smilzo e sempre in moto, mentre parlavano non si era fermato un attimo, quasi correva sul posto, e andava avanti e indietro, gesticolava, faceva le smorfie, un vero furetto.
L’altro, da parte sua, aveva appiccicato su T. uno sguardo tra l’affascinato e il disgustato: si era pentito di averlo chiamato a giocare, questo pomposetto intellettualoide sedentario, e adesso rischiava di arrivare tardi, dietro tutti gli altri, che correvano come lepri ed erano già lontani, sempre più lontani… Ma non voleva essere scortese, ed esitava ad andarsene, lasciandolo lì da solo.
- Bene – riprese T., tirandosi su - direi che in questo hai senz’altro ragione: se vogliamo divertirci, dobbiamo andarci con le nostre forze, fin là.
Si stiracchiò un po’, si raddrizzò e, senza dire nient’altro, si avviò di buona lena.
Lo smilzo era sorpreso: non si aspettava più di riuscire a coinvolgerlo, e del resto ormai era tardi. Qualunque cosa ci fosse stata laggiù, per quando sarebbero arrivati non ci sarebbe stata più, travolta dalla folla urlante e scalciante che sciamava alla velocità del fulmine. E però la frenesia lo spingeva a correre lo stesso, mentre invece T. sembrava non volersi nemmeno spettinare – Ehi, ma hai visto quanto siamo indietro? Muoviti, dai! - E gli diede una pacca sulla testa.
- Ma che modi! Almeno dimmi come ti chiami, prima di prenderti certe confidenze! Non ci siamo neppure presentati!
- OK, io sono T. E adesso sbrigati.
- Piacere – disse T. con il fiatone – io mi chiamo T. Abbiamo la stessa iniziale! Sai qual è la probabilità che…
- No, non la so e non me ne frega niente. Spicciati, che quelli non ci lasciano neanche le briciole, sennò!
- Ma che poca lungimiranza! Davvero vuoi andare a confonderti con tutta quella marmaglia?
- Perché, hai qualche altra idea? Conosci un modo per arrivare prima di loro senza superarli?
- Mhm… Questa mi ricorda il paradosso del moto di Zenone… E la freccia scagliata e ferma…
- Ma basta! Ma ti vuoi dare un mossa! Ma chi me l’ha fatto fare…
- E calmati un momento! Ecco, adesso… Fermati un attimo. Sta a guardare…
T. lo smilzo stava per lasciarselo dietro, ormai definitivamente pentito di essersi messo a cavillare con quel culo di piombo, ma… Fece appena in tempo a fermarsi, prima di inciampare nel mucchio informe di teste ed estremità in furiosa agitazione appena davanti a lui. Era accaduto l’insperabile: la turba, vittima della sua stessa foga, si era come accartocciata su se stessa, l’inciampo di uno era diventato la rovina di tutti, e adesso quelle migliaia e migliaia si calpestavano, si colpivano, si ostacolavano a vicenda, nel tentativo di riprendere la corsa.
T. lo smilzo guardò T. il pacioso, che se la rideva e con tutta calma aggirava il mucchio selvaggio. Per un attimo provò quasi una fitta di invidia per quel modo così diverso di affrontare le cose, per quella calma olimpica, ma fu solo un momento: qualcuno stava districandosi dal groviglio dei migliaia, tipi decisi e veloci che da quella specie di melassa gelatinosa si distaccavano come bollicine e riprendevano la corsa. Ma T. il placido continuava imperturbabile per la sua strada, quasi senza accorgersi che lo stavano già riprendendo, e quasi superando. E allora no, così non va. Ok amico, va bene il ragionamento e l’entnglm e quello che vuoi tu, la tua parte l’hai fatta egregiamente, ma adesso solo una cosa serve: azione!
E prima di finire il pensiero letteralmente decollò, manco avesse acceso i retrorazzi, affiancò il T. lento e lo afferrò per la vita sottile – nuota! E quell’altro non fece in tempo a capire cosa l’avesse travolto, in quale vorticoso tunnel fosse precipitato, quale piega dello spazio-tempo lo stesse inghiottendo… Entanglement? Può essere che ci si senta così? E disperatamente nuotava, nuotava per non perdere il passo con quell’altro T. che sempre tenendolo per la vita gli saettava ora a destra ora a sinistra, sempre davanti però, mentre indietro restavano tutti gli altri, manco stessero fermi, e invece si agitavano, eccome se si agitavano! Ma senza speranza, non potevano competere con il fulmine, con il Grande Fotone in persona, erano inesorabilmente destinati a scomparire dietro, in un orizzonte lontano lontano di possibilità che non si sarebbero avverate. Un’altra volta, forse: adesso tocca a T&T.
Non seppe mai, il T. lento, quanto tempo avesse trascorso alla velocità della luce… e lui per primo sapeva che era una contraddizione parlare di tempo in una situazione in cui, per definizione, il tempo è fermo. L’altro T., invece, proprio non se ne preoccupò, e si curò solo di accelerare, accelerare ancora, per fermarsi solo al cospetto della luce che, ancora remota, aveva tuttavia messo in moto tutto quel pandemonio.
Restarono in silenzio, attoniti e quasi spauriti: la sfera era enorme, solo a fatica se ne intuiva la forma, tanto i suoi confini si perdevano oltre lo sguardo, che non riusciva a contenerla. Pulsava sospesa nel vuoto, emettendo una luminescenza calda che sembrava fuoriuscire da una fessura minuscola proprio lì, davanti a loro, diffondendo un tepore che sapeva di intimità e di dolcezza, una promessa di altri mondi, di un universo nuovo, di spiagge sconosciute, di orizzonti vasti e solenni.
Per la prima volta in vita sua, T. il placido non trovò parole per esprimere ciò che aveva davanti. Persino i pensieri sembravano inadeguati al cospetto di quella magia grande e terribile, solo confuse emozioni gli erano rimaste dentro.
Era forse Dio quella cosa? Il solo pensiero bastò a tramortirlo, a renderlo del tutto incapace di discernimento, ormai completamente assente a se stesso.
E intanto, dietro, lontano lontano, si cominciava ad intravedere la sagoma di qualche raro nuotatore attardato, ombre pietosamente arrancanti e ormai sfinite, eppure ancora determinate, che sembravano trarre rinnovato vigore dalla vista della divinità.
Fu allora che T. il Veloce, ammiccando verso il Lento, lo riscosse dalla contemplazione mistica e, indicando con la codina la fessura – di’ un po’ – gli disse – ti va di correre fin là?

lunedì 22 dicembre 2008

Sfida all'OK Corral (presso Rocco Toys)

Natale incombe e i gattopuzzi scappano da questa bolgia urbana, anche se –ahimè – troppo tardi, dovendo restare al chiodo fino al giorno stesso di Natale; poi, però, il signor Gattopuzzo e la signora Cucciola si ritirano al paesello, e tanti saluti alla turba berciante che infesta le strade e rende folli a camminarci in mezzo. Casino, luci, ressa, clacson, congestione di traffico, masse di carne semoventi…Bleah!
Questo orrore della folla ce l’ho sempre avuto, eppure una volta non esitavo a tuffarmici in mezzo; certo, c’erano motivazioni molto solide. Prendiamo per esempio Natale ’96, la vigilia. Chiudete gli occhi e immaginate il Gattopuzzo poco più che trentenne, fisico atletico, sguardo deciso, single, scatenatissimo e pure in carriera, che si fa incastrare e anziché lavorare mezza giornata si trova a dover consegnare – da solo – i materiali per un mailing alla tipografia; perché qualcuno (o meglio: Qualcuno, leggi l’amministratore delegato, che all’epoca ancora mi ispirava la maiuscola) aveva deciso che quella roba doveva partire proprio in quei giorni lì.
E però il GPZ è anche zio di una nipotina ormai metamorfosata in Alien, come tutti gli adolescenti, ma che all’epoca era un’adorabile tesorino di tre anni, che aspettava impaziente Dado (mi ci chiama ancora, la fanciulla) e soprattutto il regalo che Dado aveva di certo consegnato a Babbo Natale. Solo che Dado non aveva consegnato proprio un tubo, perché era aduso a lavorare dalle dodici alle sedici ore al giorno e non aveva avuto tempo di battere i negozi di giocattoli alla ricerca di Baby Mangiapappa Falacacca, che era il bambolotto alla moda tra le bimbette di quegli anni lì. Contava sulla vigilia , l’incosciente zio, come se fosse facile in quel giorno di delirio setacciare negozi alla ricerca di una preda fin troppo ambita da mamme, papà, zii, nonni, amici, parenti e affini fino al settimo grado.
Per farla corta: finisco di preparare il materiale alle 18, pianifico: prima il regalo all’adorata nipotina, poi la volata verso la tipografia, che tanto il tipografo ci abita sopra e la roba gliela posso portare pure a casa. Mi fiondo nel mio peugeotttino azzurro parcheggiato a via Po, parto alla volta di Rocco Toys e… resto bloccato seduta stante in un magma di metallo urlante.
Come abbia fatto non dico ad arrivare da Rocco Toys a Corso Francia, ma piuttosto a non venire arrestato o anche terminato dalla forza pubblica è per me tuttora un mistero; sta di fatto che a Corso Francia Baby Mangiapappa Falacacca non c’era, le scorte già depredate da legioni di ossessi. Monta il panico, sono le 18.30, che fare? Mi attacco al mio primo cellulare, che aveva più o meno le dimensioni di un ferro da stiro da viaggio e una riserva di batteria non superiore a cinque minuti, dopo essere caduto in una pozzanghera proprio mentre lo scartavo, appena comprato. Setaccio una decina di negozi via etere (quelli che si degnano di rispondere), ricevo un timido segnale positivo da un altro Rocco Toys; problema: sta sull’Ardeatina, che in quel casino è come dire su Saturno. Ma GPZ Cuore di Zio non demorde: mi metto al volante con cipiglio criminale, deciso a infrangere tutte le norme del codice della strada e svariati articoli di quello penale; sgommo, arroto, schivo, urto, insomma guido il povero peugeottino come fosse un motorino e miracolosamente arrivo alla meta, alle otto meno dieci, ma è ancora aperto! Schizzo fuori dalla macchina, mi sa che la lascio pure in moto, presto presto! Prima che chiudano, o peggio che qualcun altro si compri l’ultimo esemplare! Ho un vantaggio competitivo, conosco quel negozio per averlo frequentato in compagnia di un’antica fidanzata, e così mi lancio subito nel reparto giusto, vedo un rivale in tutti quelli che mi passano accanto, li guardo in cagnesco, avvisto da lontano lo scaffale, vedo pure il bambolotto e – orrore! Ce n’è rimasto per davvero solo uno, e proprio lì vicino due papà stanno assediando la commessa con la fatidica richiesta “dove posso trovare Baby Mangiapappa Falacacca”? Lei glielo indica, io non ne ho bisogno, ma loro sono in vantaggio. Perdo ogni ritegno: mi metto a correre, loro capiscono al volo e fanno altrettanto, ma io ormai ho l’abbrivio e poi modestamente sui cento metri sono sempre stato un fulmine, arrivo insieme a loro, ci guardiamo negli occhi, leggo lo sgomento nel loro sguardo e, memore di millanta sfide vinte a rubabandiera, so che quello è il momento: prima che si riscuotano agguanto la preda e schizzo via, li lascio lì con un palmo di naso, prima a inveire contro di me (ma io sono già lontano con il tesoro, e corro rapido verso la cassa), e poi a supplicare la commessa impotente che gliene trovi un altro, che lo ordini, lo teletrasporti, lo materializzi, lo crei ma faccia qualcosa, perché loro a casa dalle pargolette senza Baby Mangiapappa Falacacca no, proprio non ci possono tornare, e le mogli li scuoierebbero vivi per aver fatto tardi al lavoro trascurando i bisogni dell'angelica prole.
Trafelato passo alla cassa, pago ridendo sguaiatanente per lo sguardo attonito e quasi addolorato della cassiera, che alle otto della vigilia gli tocca pure sorbirsi uno spettacolino di questo genere, quasi quasi strillo “Adrianaaaaaaa!!!!” come Rocky Balboa (giuro che c’è mancato un niente, mi sentivo davvero come se avessi vinto i mondiali, Rocco Toys come l'OK Corral!), rimonto in macchina e via, verso la libertà! Mi mancano ancora ottanta chilometri a casa della mamma e devo pure fare tappa in tipografia, quando ci arriverò interromperò la cena della vigilia del buon Roberto, il tipografo, che mi offrirà pure di cenare con loro, mentre invece la mamma mi perseguita con chiamate sul cellulare a intervalli di cinque minuti, e tra uno smadonnamento e l’altro finalmente, alle nove e mezza, esausto varco la soglia di casa, dove tutti stanno lì incazzati ad aspettare il signorino ritardatario e schiattano dalla fame. Mi becco i rimbrotti, la mia dolcissima sorellina manifesta il proposito di evirarmi e lo farebbe se non si mettesse in mezzo quel sant’uomo del marito, ma che possono saperne loro della mia felicità? Ho vinto un mondiale, sono un campione, e loro non sanno… E mentre finalmente mi siedo e inforchetto gli spaghetti allo scoglio, il mio pensiero va cavallerescamente ai due sconfitti della competizione: chissà che vigilia gli starà toccando in questo momento, poveracci!

mercoledì 3 dicembre 2008

The Monkey race

Concludiamo il resoconto dell’avventura inglese (in realtà già finita da una settimana) saltando direttamente all’ultimo giorno; dove si narra dell’epica sfida dei sette (team) che sono scesi in campo a fronteggiarsi sul terreno per tutti infido dell’asset allocation.
Dunque, la cosa funzionava così: nella solita sala in cui abbiamo patito per sette giorni ponderosissime e altrettanto pallose presentazioni, l’ottavo giorno abbiamo trovato – senza preavviso alcuno – un tabellone all’ingresso che recava l’enigmatico titolo di “portfolio in peril” e poi, dentro, sette tavoli tondi con sopra scritti nomi come “I gondolieri”, “Carnevale”, “San Marco” eccetera; trattandosi con ogni evidenza di una simulazione di portafoglio in uno scenario economico - diciamo così - tempestoso, la scelta della città dell’acqua alta era effettivamente pertinente, richiamando originalissime metafore quali “acqua alla gola”, “nave che affonda”, e via così.
C’era pure il megaschermo, che a intervalli regolari sparava finti tiggì economici con le notizie in base alle quali si dovevano prendere le decisioni di investimento.
Infine, un tocco di sadismo: tra i partecipanti, seduta a nessun tavolo, c’era La Scimmia. La scrivo con la maiuscola, perché La Scimmia è l’incubo che incombe su ogni onesto pedalatore della finanza: qualsiasi strategia di trading uno proponga, deve dimostrare di essere almeno in grado di battere La Scimmia, essendo La Scimmia l’ovvia metafora del trader che compra e vende a casaccio (ma io non sono così sicuro che una scimmia vera farebbe davvero così, al gran casinò della finanza globale; e soprattutto non sono sicuro che non siano invece i trader, a comprare e vendere a casaccio).
Ora capirete, un conto è arrivare ultimi su sette, e passi: al ritorno in azienda si può sempre dire di essere incappati in un’accolita di fenomeni; ma come giustificare un eventuale arrivo magari manco ultimi, e però alle spalle della Scimmia?
Alla sola vista del terribile cartello posto su un tavolo vuoto siamo sbiancati tutti, compresi quelli provenienti da paesi che garantiscono quella che il nostro mitico premier definisce abbronzatura naturale (a ciò che si dice di lui in giro per il mondo dedicherò un post a parte).
Insomma, per farla breve: solito briefing, con livelli di tensione palpabile, peggio che alle corse dei go-kart di sabato; tiggì finto, pronti, via!
Ed ecco menti eccelse scatenarsi in arditissimi ragionamenti macro e micro, su economia e finanza, e il tasso di interesse della banca centrale vietnamita, e il future sul caffè honduregno, e la supercazzola… E al primo giro, ecco che l’incredibile si verifica: perdiamo subito il 10% del capitale, e poco male, perdono quasi tutti; il dramma vero è che siamo subito ultimi, e La Scimmia è in fuga davanti a noi!
Secondo tiggì, di nuovo pronti, via! Nervosismo alle stelle, tempo che incalza, consultazioni convulse, compulsare frenetico di statistiche… Tutto inutile; arriviamo disfatti e trepidanti al verdetto della borsa, e vediamo le chiappe della scimmia sempre più lontane davanti a noi, e lei corre, corre sempre più veloce, e noi arranchiamo in fondo, già tutti a pensare a come fare per non dire, per non raccontare l’onta…
E poi per brevità non vi racconto il resto, ma sappiate, o lettori miscredenti, che le cose sono andate esattamente al contrario di come tutti vi aspettate: dal terzo giro in poi abbiamo vinto tutte le manche, nessuna esclusa, e l’ultima è stata una cosa da cardiopalmo: davanti a noi (che eravamo I Gondolieri) ci sono soltanto quelli del Danieli, e proprio di un’incollatura: e che ve lo dico a fare, li abbiamo bruciati proprio sulla linea d’arrivo, di un’inezia, e abbiamo vinto noi, salti di gioia, baci e abbracci, e pure una scatola di cioccolatini come trofeo! E vai che siamo dei fenomeni – pacca sulla spalla -, ma hai visto come abbiamo intuito subito la recessione in Cina, e poi la manovra di copertura, lo sapevo che il dollaro scendeva anche se tutti scommettevano al rialzo, e bla e bla bla bla bla!
BLA!
Per la verità, a me è parso più che altro che abbiamo avuto un culo mostruoso; alla luce delle notizie che, di tiggì in tiggì, giustificavano a posteriori le salite e le discese del nostro portafoglio, c’era davvero poco da intuire: recessione in Cina, sì, ma causata da un terremoto, e il dollaro crollava in seguito a non mi ricordo quale cataclisma geopolitico, e così via. Che è pure una bella lezione per tutti quelli che pensano che un gestore capace di fare profitti per un lungo periodo è bravo, e gli affidano tutti i propri risparmi: random walk chiamiamo questo fenomeno noi statistici, passeggiata aleatoria; si caratterizza per poter andare infinitamente su e anche infinitamente giù, infilando a volte serie consecutive di su-su-su o giù-giù-giù da far straparlare la gente di “chiare tendenze rialziste”, o ribassiste, mentre in realtà il mondo se ne va a casaccio e i risparmi a puttane.
E così la nostra gara, per il disappunto degli altri membri del team, io l’ho ribattezzata The monkey race: non c’era una sola scimmia, ce n’erano sette vere più una virtuale, e la gara è consistita non nel vedere chi era il gestore più bravo, ma solo quale fosse la scimmia più fortunata; ma, purtroppo…The trouble with the monkey race is that even if you win, you're still a monkey… Ma questa l’ho presa in prestito da Lily Tomlin che la disse a proposito di The rat race, dove i ratti stanno al posto delle scimmie.

domenica 30 novembre 2008

Quei temerari sulle macchine da corsa


Alla fine dell’avventura inglese, il rammarico è di non aver avuto tempo a sufficienza per aggiornare il blog in diretta, come avevo iniziato a fare. OK, mi accontenterò di fare un sunto delle imperdibili (dis)avventure del Gattopuzzo a Londra, anche se certi episodi avrebbero meritato ben altro rilievo.
Cominciamo dal fine settimana, in cui noi sessanta prigionieri provenienti da trentacinque paesi diversi siamo stati messi in semilibertà. Solo semi, perché sabato ci hanno portato a fare le corse coi go kart, che non era come stare in aula ma non necessariamente era un divertimento… Ma, bontà, loro, non era obbligatorio, per cui tutto quello che ne è conseguito devo onestamente ammettere di essermelo andato a cercare.
La partenza (del pullman, non ancora della corsa) era alle 11, e dopo nemmeno mezz’ora eravamo già alla pista; il primo impatto con una cosa così non è proprio tranquillo: uno si immagina la macchinina a pedali della sua infanzia, e invece si trova ad ammirare dei mostriciattoli piuttosto lunghi e larghi che assomigliano pericolosamente, nell’estetica, ai mostri veri della formula 1; e non vanno per niente piano.

Il seguito non allenta la tensione, anzi: ci portano negli spogliatoi, ci danno tute caschi e guanti, ci fanno sedere tutti intorno a un tavolo e arriva un tizio molto smart – pure lui in tenuta da aviatore, chiaramente – che ci tiene un briefing che dovrebbe essere tranquillizzante, e invece è terrificante. A parte che è brasiliano e parla un inglese velocissimo e incomprensibile, c’è il problema che le regole da seguire durante questa corsa (perché proprio di competizione si tratta, non di giretti di pista come tutti avevamo creduto) sono talmente tante che è impossibile ricordarsele tutte, e non è che sia proprio innocuo fermarsi nel posto sbagliato o ripartire in un momento inopportuno, con il pericolo che ti piombi addosso qualcuno a ottanta all’ora mentre tu sei su un trabiccolo del tutto scoperto…


Vedo Wioletta, la ragazza polacca seduta accanto a me, impallidire progressivamente fino a confondersi con la parete: trattasi di creatura eterea e soave, già quasi trasparente di suo, e mi era sembrato strano assai che sì leggiadra creatura potesse trovare a sé confacente passatempo tanto ruvido e materiale; ad un certo punto mi tocca timidamente il gomito, la voce è quasi strozzata: - Maurizio, It was a terribile mistake, I can’t do these things, I’m very worried…I had been unwise... e io lì, da vero uomo, a rincuorarla insieme ad altri veri uomini e qualche vera donna – Don’t worry, Wioletta, it’s not as terribile as it seems, you will see… Now all is difficult for you, but when you will be driving you will enjoi, I am sure…- Cioè, questa è la trascrizione più o meno letterale di ciò che le ho detto nel mio inglese non proprio oxfordiano, non so se per lei sia stato intelligibile, come io spero. Del resto, erano una montagna di spacconate, perché io ero preoccupato quanto e più di lei, e facevo una fatica tremenda anche solo per non scappar via urlando. Insomma, com’è come non è, ci mettono in team insieme, io lei un lituano e un cinese, tale Wang, che aveva riso per tutto il tempo del briefing.
Il cinese si rivela subito pippa di proporzioni colossali: manco parte che già sta dietro a tutti, poi fa testacoda, poi alla fine non lo vedo più e non so che fine abbia fatto; io e il lituano, superata la paura iniziale, cominciamo a prenderci gusto e iniziamo la rimonta, attestandoci dignitosamente nella parte medio alta della graduatoria, subito dietro quelli che già ci avevano rifatto, e che però confesseranno solo a corsa finita; e Wioletta? Wioletta, la nostra diafana mascotte, all’abbassarsi della bandiera è schizzata fuori dalla griglia come un missile – per la paura, ha avuto l’ardire di dirmi poi -, si è posizionata tra i primi e da quel momento io di lei ho visto solo le ruote posteriori, e sempre più lontane. Ogni tanto davo un’occhiata al tabellone, e sconsolato constatavo che mi dava due secondi al giro, giro dopo giro, finché poi non l’ho proprio vista più.

E, mentre battagliavo per la settima o la nona posizione, a seconda dei giri, mi chiedevo pure che fine avesse fatto il cinese… Non fosse stato per lui, con la performance astronomica dell’angelo da corsa (così abbiamo ribattezzato la nostra polacchina) e quella più che dignitosa (fino a quel momento, almeno…) mia e del lituano avremmo potuto essere in testa… E invece quello era disperso, e noi penultimi! E allora dacci dentro Gattopuzzo, vai che ce la fai, dai che quelli davanti non sono poi così lontani, pigia senza paura sull’acceleratore che li puoi prendere… E infatti li ho presi: proprio frontali, dopo un doppio testa coda carpiato con salto di chicane e crash finale con avvitamento sulle due macchinine che mi precedevano e che nel volo ho superato, tagliandogli la strada attraverso la chicane. Risultato: finisco sì davanti a loro – in maniera non proprio sportiva , essendo stato il più lesto a ripartire -, ma la prodezza ci procura solo il terzultimo posto (al team) e un ginocchio come una zampogna (a me). Del cinese, nessuna notizia fino a dopo il traguardo: si era fermato e poi era ripartito con andatura da torpedone, per le ire dell’angelica fanciulla, che ha rinunciato a morsicarlo solo grazie all’intervento di peace enforcing del bravo lituano.

Conclusione della gloriosa giornata: Gattopuzzo in camera, sdraiato su poltrona reclinabile con poggiapiedi, urlante di dolore con sul ginocchio il ghiaccio dello champagne – e sì, in camera c’era anche quello, da quanto costava ho temuto che anche per l’uso del solo ghiaccio mi avrebbero estorto come minimo una ventina di pound, evento per fortuna non verificatosi.
Più tardi, verso le sei di sera, ho radunato quello che restava del coraggio (e dell’orgoglio) e mi sono avviato dignitosamente verso la hall dove ci attendevano per portarci a cena, ululando tra me e me per non zoppicare. E chi c’era nella hall? Ma Wioletta, e chi se no? Che stava lì a pavoneggiarsi davanti a un nugolo di maschi giovani, celibi e adoranti, evidentemente sedotti dai modi da dominatrice dell’angelica creatura, che appena mi vede mi scocca e un gran sorriso e poi, rivolta all’audience –I must to say to you, I have been able to do all thanks to Maurizio… Without his boost, I couldn’t did anything!
‘Tacci tua, ‘tacci…

sabato 22 novembre 2008

Io e la Tina

Stamattina, essendo sabato, il vostro Gattopuzzo gode della semiliberta’: fino alle 11.15 puo’ tranquillamente farsi gli affari suoi, che comprendono tutto tranne la colazione: i gentili organizzatori, infatti, non offrono questo servizio nei giorni in cui la conferenza viene sospesa, e a battere palmo a palmo tutta Canary Wharf non si trova un bar aperto che e’ uno, prima delle dieci. Certo, ci sarebbe quello dell’albergo, ma poi lunedi’ mattina, alla relazione sui mutuatari insolventi, potrei offrirmi come esempio antropologico vivente dell’originatore della crisi dei mutui, dell’untore. Una sorta di paziente zero, insomma. E aspettiamo le dieci, allora. Poi, a colazione fatta, verremo di nuovo imbrancati e costretti a una di quelle attivita’ che fanno tanto fico in certi ambienti, e che pero’ stavolta trovo divertente pure io: andiamo a correre su una pista di go-kart. Almeno spero che sia divertente, perche’ il mio ultimo go-kart aveva i pedali e io avevo cinque anni, non ho seguito l’evoluzione tecnologica che c’e’ stata in mezzo e magari il mostro rombante che mi metteranno sotto il sedere fra un po’ potrebbe essere difficile da domare, chissa’.
In questi due giorni in cui non ho avuto modo di tenervi aggiornati non e’ successo granche’; unico episodio degno di nota, il dialogo surreale tra il rustico Gattopuzzo (che, sia detto in confidenza, non e’ esattamente un madrelingua inglese) e una delle hostess del convegno: “will you join us for ‘tina’?” – “Sorry?” – “I asked you if you will join us for ‘tina’”…
Ohibo’, e mo’ chi e’ ‘sta Tina? E che vuole da me? Mica mi vorranno offrire pure l’escort... E perche’ poi 'join us'… Ma che fanno, le ammucchiate?
Il GPZ, che e’ un tradizionalista fedele e dalle sconosciute non accetta le caramelle - figuriamoci il resto -, se non fosse stato assolutamente incredulo avrebbe cominciato a sudare freddo e ad arricciare il pelo; ma poi e’ intervenuta in suo aiuto una seconda hostess, evidentemente allarmata dal soffiare felino che deve aver sentito alle sue spalle: “Ok sir, my colleague is asking you if you will come with us to Hush, the restaurant where we will have dinner”.
Ahahhh…. Pero’, che cavolo: vabbe’ che il mio orecchio non e’ proprio quello di un interprete, ma ‘tina’ per ‘ dinner’ mi pare quasi dialettale… O sbaglio? Ah, le sofferenze dei gattopuzzi emigranti…

mercoledì 19 novembre 2008

La terza via

Primo giorno a Londra, e prima sospresa: niente disavventure. Che e’ davvero strano, dopo la piccola odissea di due anni fa (che un giorno vi raccontero’) e, soprattutto, dopo le difficolta’ pressoche’ insormontabili che ho trovato nel fare la valigia.
Lo dico senza pudori: il gattopuzzo, come del resto e’ adeguatamente spiegato nell’intestazione di questo blog, e’ uno spirito selvatico per antichissimo lignaggio; un mondo impietosamente cangiante e il tramonto della ruralita’ lo hanno costretto a riciclarsi nell’ambiente urbano (financo nella business community internazionale!) ed e’ anche riuscito a mimetizzarsi piuttosto bene nella fauna globale, ma resta fondamentalmente diffidente nei confronti di questi ambienti rarefatti e artificiali, e spesso si trova a soffiare il proprio disappunto, proprio come i felini di fronte all'odiato nemico abbaiante.
Gia’ e’ un indicibile sacrificio, tutte le mattine che ha fatto Dio, ficcarsi dentro una giacca e annodarsi una cravatta, eppero’ ormai a quello si e’ abituato, salvo concedersi svariati casual Friday anche quando venerdi’ non sarebbe (dove per casual si intende casual vero, con i jeans, per l’orrore dei suoi capi); capirete, pero’, che uno che si mette un vestito con lo stesso entusiasmo con cui indosserebbe una tuta da palombaro non sprechi molta fantasia nell’ideare varianti: e infatti il vostro GPZ si e’ comprato una serie di abiti sciccosi, molto ingessati, assolutamente impeccabili, e li indossa senza concedersi nemmeno una variante sulla cravatta, per paura di sbagliare accostamento.
E che dovrebbe fare uno cosi’, che si veste da ufficio come se camminasse sulle uova, alla lettura dell’invito in cui si raccomanda dressing code: business casual?
Ma va nel panico, mi pare assolutamente ovvio! Ho passato una serata intera, dalle sette a mezzanotte (con pausa cena, pero’) a smontare e rimontare il mio guardaroba, che come lo giri lo giri sempre e solo due dressing code tira fuori: o business o casual, ma niente che possa assomigliare a questa agognata terza via, che del resto neppure Berlinguer riusci’ a trovare.
Che fare? Rapido giro in internet, dove scopro che al business casual sono dedicate decine di migliaia di pagine, e anche di immagini; il dibattito verte sul corduroy (velluto a coste, che ce l'avrei pure): e’ o non e’ business casual? Certo, nelle jpeg che scarichi dalla rete lo indossano certi figaccioni che pure se gli metti addosso la giacchettina del nonno contadino sembrano neglettamente alteri, diceva Manzoni; ma io? Non e’ che con i gattopuzzi lo specchio funziona al contrario e rimanda l’immagine del nonno contadino anche se vado a spogliare l’emporio Armani?
Nel dubbio decido di astenermi; tento di promuovere accoppiamenti incestuosi tra la giacca con cui mi sono sposato e un paio di jeans seminuovi, o tra l’ultima grisaglia che mi sono comprato e un paio di pantaloni di tela grezza, ma niente: quelli proprio non ne vogliono sapere di stare assieme, l’amore non sboccia, e che vuoi farci? Se il magnetismo non c’e’…
Alla fine, esausto e sommerso di tessuti manco fossi in un sottoscala di sartine cinesi, mi arrendo: mi porto il business e mi porto il casual, e parto con l’unica improbabile accoppiata che sono riuscito a tenere insieme, jeans Timberland (pero’ marroni), giacca marrone superstite da vestito dimezzato, maglioncino verde.
Arrivo, mi vengono a prendere, mi portano in albergo: manco un’ora per riprendersi e c’e’ il cocktail di benvenuto, dal quale sono per l’appunto reduce or ora che sto scrivendo. Sono andato cosi’ come avevo viaggiato, e sapete come si erano vestiti i temutissimi figaccioni?
Allora, un africano si era messo in costume tradizionale, e passi, perche’ era davvero elegantissimo; l’ottanta percento pareva (ma pareva soltanto) in tiratissima tenuta business, perche’… il casual l’avevano spostato tutto sulle scarpe, che esibivano fogge assolutamente improbabili; gli orientali erano in tenuta da business, ma con accozzaglie di colori che manco a Carnevale. Si salvavano ovviamente le signore di ogni nazionalita', vuoi per un minimo di buon gusto in piu’ rispetto ai maschietti, vuoi per la maggiore varieta’ del loro abbigliamento.
Insomma, alla fine il GPZ, con la sua tenuta sobria ma non del tutto sbracata, ha fatto davvero un figurone!
Resta da vedere come mi vestiro’ domani, dato che l’unica cartuccia me la sono sparata questa sera…

martedì 18 novembre 2008

Gattopuzzo migratore

L’anno scorso il GPZ volò a Londra: ne scaturirono una serie di disavventure esilaranti, tutte documentate da accuratissime e-mail scritte là per là, e ora custodite gelosamente dalla signora Cucciola, in attesa di probabile pubblicazione, uno di questi giorni, quando non avrò la voglia e la presunzione di scrivere qualcosa di nuovo.
La notizia è che l’avventura sta per ripetersi: domani mattina il vostro magnifico GPZ si getterà tra le braccia della perfida Albione, ospite nientepopodimenoché di Morgan Stanley (se non fallisce prima, of course: dirlo non sarà elegante, ma di questi tempi un’altra merchant bank che salta in aria non mi stupirebbe affatto).
Le disavventure, in realtà, sono già iniziate: mai valigia è stata più difficile di questa. Il perché? Ve lo dirò al ritorno, my beloved friends… Per ora pazientate: giovedì 28 sarò di ritorno, e vi prometto un resoconto con i fiocchi!
Bye

GPZ

mercoledì 22 ottobre 2008

R.P.

Nel 2001 mi rubarono il portafoglio in ufficio. E chissenefrega, potreste dire voi. Le conseguenze di questo fatto, però, sono davvero notevoli e anche esilaranti, per cui ve le racconto.
Intanto fu già comico il modo in cui il ladro – sono quasi sicuro che fosse un uomo - usò la carta di credito: spese quasi un milione (c’erano ancora le lire) in un salone di bellezza, in meno di due ore; e quanto mai sarà stata brutta, la sua bella… Si comprò anche uno stereo, e poi esaurì quello che restava del plafond in buoni benzina.
Io feci la denuncia, riebbi quasi tutti i soldi dall’assicurazione, mi rifeci i documenti e pensai di poterci mettere una pietra sopra… E invece era solo l’inizio dell’incubo.
Dopo pochi mesi, mi arriva una convocazione dai carabinieri: vado e mi contestano una truffa a una concessionaria che aveva fruttato al truffatore una Porche da duecento milioni. Un tizio con i miei documenti, infatti, aveva trovato il modo di farsela consegnare dietro un anticipo ridicolo, e poi era sparito. Mi ci volle una mezza mattinata per convincerli che il tizio non ero io, nonostante la regolare denuncia di furto che avevo fatto all’epoca e la misera Peugeot 106 carta da zucchero parcheggiata appena fuori la caserma.
Da quel giorno, la capatina dai carabinieri divenne un’abitudine, tipo quelle gite culturali che uno si concede una volta ogni due o tre mesi; e siccome li pagano per essere sospettosi, i carabinieri, quelli interpretavano ogni volta al meglio il loro ruolo di probi tutori dell’ordine e mi torchiavano per un paio d’ore. Tra l’altro non erano mai gli stessi, per cui mi sono anche fatto una bella cultura sugli arredi interni delle caserme di mezza Roma e parte della provincia.
Finalmente, dopo un quattro anni dal fatto, arriva una convocazione che solo in apparenza era come tutte le altre: mi presento alla caserma di Tor di Quinto, mi fanno accomodare in sala d’attesa e… non succede più niente.
Io ho fretta di tornare al lavoro, comincio a sbuffare, passeggio nervoso, do chiarissimi segni di insofferenza, ma niente. Insieme a me attende una coppia di persone di una certa età, sono un po’ più pazienti di me, ma insomma, anche loro alla fine si innervosiscono. Chiamiamo il piantone – a vederlo pareva che avesse dodici anni -, facciamo una mezza scenata, quello si mortifica e diventa piccolo piccolo, farfuglia che il maresciallo è stato bloccato da un imprevisto, un’ispezione improvvisa, diventa tutto rosso, ci inteneriamo e lo lasciamo stare, ormai rassegnati al nostro destino. Ci rimettiamo seduti, siamo lì da quasi due ore, che fare?
Chiacchieriamo, io racconto la mia disavventura e loro fanno lo stesso; sono anche loro vittime di una truffa, hanno una pellicceria e si sono fatti abbagliare da un signore rispettabilissimo all’apparenza, molto elegante, accompagnato da una bambina – ispirano sempre fiducia -, che si è portato via venti milioni di pellicce pagando con assegni che quando la signora è andata in banca a versarli è stata trattata come se fosse lei, la ladra, e il cassiere ha pure chiamato i carabinieri. Adesso sono qui per chiarire questa storia e raccontare la loro versione dei fatti; il conto l’hanno chiuso, erano clienti da anni ed essere trattati in quel modo, insomma…non gli è garbato molto.
E chiacchieriamo per un’altra ora e mezza, alla fine ci rilassiamo, quasi ci scordiamo pure perché siamo lì, sospesi in quel limbo – una stanza squallidissima arredata con due panche di legno e un tavolo decrepito – in attesa che qualcosa succeda…
E infine la nostra attesa è premiata: appare il maresciallo, che si scusa, arrossisce pure lui, è costernato, eccetera eccetera; convoca prima la coppia, e restando da solo ho il tempo di pensare, e finalmente capisco: questi immensi bischeri hanno voluto fare un confronto all’amatriciana tra truffati e presunto truffatore, perché evidentemente non se l’erano mai levato dalla testa il sospetto che in realtà fossi stato io ad architettare tutto, compreso un falso furto di documenti. Quasi quattro ore mi hanno lasciato a bagnomaria con quei due poveracci, perché evidentemente una mezz’oretta non gli bastava. Quando vedo la coppia allontanarsi entro furente dal maresciallo, ma figuratevi se quello era disposto ad ammettere la furbata: è stato un caso, sì certo che il truffatore era lo stesso, ma io non dovevo assolutamente pensare a quello a cui avevo pensato, e poi in fondo mi doveva dare una buona notizia, l’avevano appena arrestato; non aveva confessato, ma le prove erano tali da poterlo inchiodare; tra le prove essendo compresa, suppongo, la pagliacciata di quella mattina, con me protagonista. Rapida consultazione telefonica con l’amico avvocato – Ma che voi denuncià, ma che sei scemo? Quello nun c’ha ‘na lira, co’ che te paga? Va affinì che paghi tu a me, e a te nun te paga nessuno.
Vabbè, OK, dico, lasciamo stare la cosa così. Non lo denuncio, basta che quest’incubo finisca qui.
Ma è un pia illusione: a febbraio di quest’anno (2008, sono passati sette anni dal furto) mi arriva una convocazione in tribunale, quale teste a carico di tale R.P.; presentarsi il giorno X, all’ora Y, a piazzale Clodio. Punto.
Ohibò, ma chi è R.P.? E io che ne so delle sue eventuali malefatte? Provo a informarmi, ma è assolutamente impossibile: nella convocazione non c’è un numero di telefono, un ufficio informazioni, niente. Non resta che andare al buio, e così faccio.
All’ingresso della palazzina, dove accedo dopo fila, raggi X e perquisizione, c’è un gabbiotto con su scritto “Ufficio informazioni” e poi, sotto, un cartello: “Chiuso per guasto tecnico”. Si sarà rotta la sedia? Comunque capisco l’antifona, rinuncio alle informazioni e vado direttamente in aula. Sul mio documento c’era scritto di presentarsi alle 11, e infatti a quell’ora arriviamo, puntuali e tutti insieme, una mandria di testimoni. E che avrà fatto mai, R.P.?
Ma è solo che loro i testi li convocano all’ingrosso, poi decidono lì per lì da quale processo cominciare, e il mio naturalmente è l’ultimo. In tribunale non c’ero andato mai, devo dire che quella mattina mi sono fatto una autentica cultura di penale. L’unica cosa che non capivo era perché non si pronunciasse una sentenza che era una, ma solo rinvii. Una volta mancava un teste chiave che era in ospedale, un’altra volta c’era un vizio di forma, e poi invasioni di cavallette, inondazioni del Tevere, atterraggi di UFO, qualsiasi cosa fosse idonea a impedire il pronunciamento.
Quando è toccato a me, il rinvio è arrivato ancora prima di cominciare: il cancelliere si è alzato e ha annunciato che R. P. (ma chi sarà mai costui?) non c’era – giustamente, ci ha tenuto a dire – perché lui aveva eletto domicilio presso l’avvocato Leguleio Azzeccagarbugli, ma aveva scelto come difensore l’avvocato Codicillo Azzeccagarbugli, e proprio all’indirizzo di quest’utimo era stata inviata la convocazione, non al domicilio eletto, per cui R.P. era assente (giustificato) per colpa del cancelliere (che era lui che stava parlando). E non potevasi procedere.
Sfatto e scoraggiato mi avvio all’uscio, inseguito però dal pubblico ministero che mi riconvoca a voce per il 17 ottobre, cinque mesi dopo. Ma non mi dice chi sia R.P., né cosa abbia fatto. Uscendo, però, vedo un tizio che mi pare di conoscere; lo avvicino, gli chiedo se pure lui si trovasse lì per R.P. e quello mi dice sì, è lui che l’ha arrestato. Allora guardo meglio e lo vedo, sì, è proprio il maresciallo di Tor di Quinto, così adesso finalmente so chi è R.P., e soprattutto cosa ci si aspetta che io dica.
Premesso che in tutto questo tempo più nessuna convocazione – nemmeno un memo – mi è giunta, il 17 ottobre mi sono ricordato per miracolo che dovevo tornare in tribunale. Solita trafila: perquisizione, raggi X, gabbiotto delle informazioni ancora “Chiuso per guasto tecnico” – e quanto ci vorrà mai ad aggiustare una sedia! – e nessuno che mi sappia dire dove devo andare. Per fortuna mi ricordo dove sono andato l’altra volta, e per puro culo l’aula del processo è ancora quella. Ma non si farà il processo, dice il cancelliere, perché è sciopero, appunto, dei cancellieri. – E allora lei che ci fa qui? – Ma per dire ai testi e al pubblico ministero (una vera bellezza, almeno questo lo devo dire) che sono in sciopero, non è chiaro? A me tanto chiaro non è, però lui pare convinto, e tocca abbozzare. Me ne vado, ancora più sconsolato della volta precedente. Non so nemmeno quando dovrò tornare, perché se lo voglio sapere devo aspettare almeno un’altra ora che scenda il giudice. Per le scale mi si affianca una fata. Non è il PM, è ancora più bella, si presenta come il nuovo avvocato di R.P., non capisco cosa voglia, facciamo qualche rampa di scale insieme, mi parla come se fossi un teste a discarico, invece del principale teste dell’accusa. Mah. Mi saluta, se ne va sculettante nel suo tailleur. E io resto lì con una domanda, una sola, che non ho il coraggio di pregarla di porre per me al suo assistito, a R.P.: ma quei quattro milioni che m’hai fregato non me li potevi chiedere, che io te ne davo pure il doppio e la Porche te la compravo io, pur di evitare questa persecuzione?
Naturalmente, alla fermata dell’autobus scopro che è sciopero pure dei mezzi pubblici. Taxi manco a parlarne, il lavoro aspetta e impelle. Da piazzale Clodio a Via Nazionale saranno buoni quattro chilometri. Indovinate un po’ come se li è fatti il vostro GPZ? R.P., R.P…. se solo potessi averti tra le mani...

martedì 30 settembre 2008

Il posto magico



Almeno stasera voglio astenermi dal parlare male di qualcosa o di qualcuno. Pare quasi che gente come me viva solo per sputare veleno sul mondo, quando l’unica cosa che davvero mi sento di rimproverami, rispetto al mondo, è di amarlo troppo. Molti non capiranno questo che pare un ossimoro, ma le persone che mi interessano capiranno benissimo, e gli altri tanto non sanno manco cos’è un ossimoro; se sono capitati qui per caso hanno già smesso di leggere, e comunque non vale la pena di perdere tempo a scrivere per loro. Sciò!
Dunque, miei selezionatissimi lettori, oggi parlerò di quello che è forse il luogo che più amo al mondo; non pretendo che sia il più bello, e però bello lo è davvero. Di tutti quelli che ci ho portato (e sono tanti, l’ultima proprio sabato scorso) nessuno è mai rimasto deluso, e quindi facciamo parlare le immagini, anche se non rendono piena giustizia alla magia del posto.







Bello, eh?
E allora sappiate che il GPZ in questo posto ci è nato, e anche ora che il lavoro lo relega nell’ambiente urbano, tra catrame e cemento come il ragazzo della via Gluck, non perde occasione di tornarci.
E’ il luogo dove sta il mio cuore, il posto dove vado a godere delle cose che amo di più e dove mi rifugio quando ho bisogno di leccarmi le ferite. Quando sono immerso in quel mondo tutto mi appare così naturale e così giusto che, come dice Branduardi, "forse anche morire non fa male": tutto può starci, in fondo, sempre di natura si tratta, e non ci sarebbe da farne un dramma.
Ma siamo vivi, per fortuna, e questa meraviglia ce la possiamo godere. Quante cose potrei raccontare su questo posto, che non interesserebbero nessuno, ma che io non mi stancherei mai di narrare: le scorribande da bambino, le scampagnate da ragazzo (quelle con le ragazze erano chiaramente le più belle), le battaglie giovanili del mio gruppo di ventenni visionari che riuscì infine a far dichiarare tutta quest’area riserva naturale integrale, come è ancora oggi, anche se non so per quanto ancora, con l’aria che tira e con le aggressioni speculative incessanti di cui tuttora è oggetto questo territorio; ma si facciano pure avanti, finora questi speculatorucoli sono sempre tornati a casa con le corna rotte, quando hanno provato a toccare questo gioiello: il GPZ e la sua tribù non solo l’hanno fatta, la riserva naturale, ma la difendono con i denti.
Insomma, passa tutto per questo posto: il mio affacciarmi al mondo, il modo in cui ho imparato a conoscerlo, il mio romanzo di formazione, la passione per la natura della mia maturità.
Andate a conoscerlo, vi accoglierà.

venerdì 8 agosto 2008

Antropologia post ospedaliera

Dedico un post al ministro Brunetta, che ovviamente non lo leggerà non per quello che pensate voi tutti, miei milioni e milioni di lettori, ma perché sempre rifuggirà – lui, criceto fellone! – dal confronto con l’intelligenza della mente superiore dei gattopuzzi.
Ricorderete che un mesetto e mezzo fa il GPZ ha avuto un problemino di salute che lo aveva fatto includere nella lista delle specie a rischio estinzione, in quanto unico rappresentante del suo ramo tassonomico. Proprio a questa unicità si deve l’abnegazione con cui si sono prodigati medici e infermieri (tutti animalisti) che gli hanno salvato la pelliccia.
Siccome sta per salpare le ancore alla volta della Corsica, il Gattopuzzus previdens previdens ha pensato di andare a ritirare la sua cartella clinica, potenzialmente utile (con i debiti scongiuri, anche quelli meno urbani) ai veterinari indigeni dell’isola, in caso di reiterato rischio per la pelliccia grigia di cui sopra.
Quindi raggiungo l’ufficio a piedi, sotto il sole cocente, entro, do un’occhiata intorno; quando ero venuto a fare la richiesta, appena dimesso, ero ancora troppo intronato per apprezzare il luogo, che è a suo modo carico di atmosfera, di un suo fascino languido vagamente sudamericano, nella calura agostana: porta sgarrupata con androncino che si atteggia a sala d’attesa, invaso da due sedie scompagnate e una poltrona, tutte rigorosamente esposte al sole; utenti in attesa palliducci e appiccicaticci, pavimento sbrecciato, muri onusti di scritte lasciate a perenne memoria del loro passaggio da generazioni antichissime di impiegati che, a giudicare dagli strati di inchiostro sui muri, devono aver cominciato a scriverci sopra già ai tempi dello Stato Pontificio, e magari ci sono anche i graffiti originari di qualche amanuense di San Camillo, addetto alla copiatura manuale delle cartelle.
Quando avevo chiesto la cartella, il giorno stesso che ero stato messo alla porta (i gattopuzzi non sono ammessi nei locali pubblici, se non per il tempo strettamente indispensabile), avevo notato che c’era scritto grosso così, sulla vetrina dello sportello (con ditate d’ordinanza), che ci voleva un mese, e anche che era meglio telefonare prima di passare a ritirarla; il GPZ, essendosi ricordato della cosa dopo più di un mese e mezzo, ha pensato bene di andarci senza telefonare, e ha fatto male, perché ovviamente - ma che fa, nun me telefona? Mica è pronta... - lo salutò la voce gutturale da dietro lo sportello, dove se ne stava piantata una signora.
D’istinto, il GPZ ha riconosciuto la sfida: la signora mi guatava da dietro il vetro con sguardo infido ma all’apparenza servizievole, lo conosco, è lo sguardo di battaglia dell’addetto al pubblico rotto a mille e mille scontri contro gli utenti più perniciosi, - altro che una mammoletta come te - , sembra apostrofarmi.
Io, a dire la verità, ero ancora intrippato a contemplare l’ambiente, al quale la signora si intonava perfettamente, con la sua permanentina e i dentoni da coniglio, la postura un po’ gobba, l’aria sfatta.
Dietro le sue spalle si intravedevano scrivanie abbandonate invase da pile e pile di carte polverose, da far fantasticare di papiri e pergamene persi da secoli, densi di chissà quali misteri e naufragati lì, direttamente dalla biblioteca di Alessandria.
Ma lei continua a guardarmi con i dentoni di fuori, che non si capisce se è per un sorriso o perché è lì che li tiene abitualmente, e capisco che non ho molta scelta, devo raccogliere il guanto di sfida, e quindi provo ad attaccare, così, tanto per saggiare le difese dell'avversario - No, scusi, ma come fa a sapere che non è pronta se non controlla? Io l’ho chiesta più di un mese e mezzo fa… - Seee… ma semo pieni de lavoro… nun ce se la fa a fa’ tutto in tempo… apposta ce dovete telefonà…se lei me telefonava io je lo dicevo che era mejo che nun veniva, magari la facevo venì lunedì… ancora manco me l’hanno portata giù, e je la devo pure fotocopià... E’ proprio tosta, un esemplare perfettamente adattato al suo habitat; non si scompone neppure, speranze di scalfirla praticamente nessuna. Ogni fibra del suo essere ribadisce fermamente “no pasaran”, inutile farsi illusioni. Una roccia. Ci penso solo un attimo, perché il GPZ sa riconoscere la superiorità dell’avversario, capisce quando è il caso di offrire una resa incondizionata, sperando nello spirito cavalleresco del nemico – Va bene signora – esordisco con le orecchie basse e la coda tra le gambe – purtroppo non avevo capito che telefonare era necessario… certo è un problema, sa, questa cosa che mi è capitata mi ha spaventato davvero molto, e adesso partire in vacanza senza avere la cartella clinica… starò in ansia tutto il tempo… se mi succede qualcosa… è proprio un guaio, devo partire sabato (che non è vero, n.d.r.)...- e la guardo implorante, mentre con il corpo assumo la posizione di chi se ne sta per andare scornato. E – miracolo! – breccia è fatta: - aspetti ‘n’attimo, vedemo un po’… Come ha detto che se chiama, lei? Ah, guarda che caso, sta qui… me l’hanno portata proprio stamattina… certo, mica po’ pretende che je la faccio subbito, però magari se lei venerdì po’ passà je la faccio trovà pronta…- davvero, signora? Sarebbe una salvezza, magari potesse farmi questa cortesia, guardi, mi salva letteralmente le ferie, sennò non me le sarei godute per niente, lo so… - ma se figuri, quando se po’… che problema c’è? Stamo qui apposta... E poi lei lo chiede con gentilezza, sapesse quanta gente c’è che ruga, lo pretende… e che se credono, che qui nun ch’avemo niente da fa’? – Ma quando mai, signora, sono un dipendente pubblico anch’io (che è vero a metà, il posto in cui lavora il GPZ ancora non si sa di chi è, n.d.r.), lo so quello che succede da quando è cominciata questa storia dei fannulloni... Non mi permetterei mai di mettere in dubbio la buona volontà di una collega... - Eh, lei ragiona bene... ma mica so’ tutti così... e però la prossima volta telefoni, eh? Che mica je posso venì sempre incontro come oggi... - Ma certo signora (il GPZ dice questo avendo ormai voltato le spalle per potersi meglio grattare i gioielli, dato che la signora ha anche una vaga aria da iettatrice), e poi (ridendo) spero di non averne più bisogno! Buongiorno e grazie ancora – Bongiorno, allora se ricordi, venerdì mattina...
A parte l’incommensurabile ruffianeria del GPZ, cosa potrebbe dimostrare questo scambio al destinatario di questo post? Cioè all’ineffabile e cazzuto ministro Brunetta?
Ma l’abbiamo fatta anche troppo lunga, per oggi: rinviamo la dimostrazione ad altra data, magari domani, così almeno so già cosa scrivere...

lunedì 4 agosto 2008

Il guru

Mi hanno raccontato una cosa che mi ha fatto morire dal ridere. Poi però, tutte le volte che ho provato a ri-raccontarla, sono incappato nello scetticismo dell’ascoltatore. Io di fronte a una storia allegra o curiosa ho deciso di sospendere del tutto lo scetticismo, e di crederci per partito preso: intanto la realtà spesso supera anche le fantasie più sfrenate, e poi perché privarsi di una bella risata solo per fare mostra di essere uomini di mondo? Serve a qualcosa?
Dunque, la storia è questa: pare che qualche tempo fa il figlio di Al Bano, Yari, abbia fatto un viaggio in India, e ad un certo punto qualcuno gli abbia parlato di un grande guru, in odore di santità, che attirava folle oceaniche. Il guru si trovava in un posto lontanissimo e pare che Yari non sia particolarmente interessato alle filosofie orientali, ma… per una volta si lascia vincere dalla curiosità – in fondo in India non è che ci si torni tutti i giorni, e un guru è comunque una parte importante dello spirito del luogo – e decide di andare anche lui.
E quindi eccolo andare in stazione, salire su un treno indiano (che è un’esperienza mistica non inferiore all’incontro con il guru), sciropparsi un paio di giorni di sballottamenti, di olezzi e accalcamenti, e infine giungere nel posto dove il guru riceve i suoi devoti.
Naturalmente gli tocca mettersi in fila in mezzo a una turba oceanica di poveri, derelitti cenciosi, malati di varie malattie con prevalenza di lebbrosi, semplici turisti come lui e varia umanità. Sta in fila non meno di due giorni, dormendo in terra, all’aperto e acquisendo pian piano un aspetto del tutto simile a quello della turba di pellegrini locali, e infine arriva il suo turno: entra nell’antro del guru.
Solo che, giunto lì, non sa bene di cosa parlare: si guarda intorno, il sant’uomo se ne sta completamente immobile davanti a lui, silenzioso, la barba chilometrica, seminudo, completamente assente al mondo che lo circonda, lo sguardo perso davanti a sé.
Però ormai è lì, qualcosa deve pur dire, e attacca incerto: “Hi… My name is Yari Carrisi… I’am the son of a very famous italian singer…” e a questo punto, inopinatamente, il santone si riscuote dalla sua atarassia: alza gli occhi sull’interlocutore, lo fissa come se solo in quel momento si fosse reso conto di avere davanti un altro essere umano, si scosta i capelli per vedere meglio, tra i peli della barba spunta una bocca, parole vengono articolate… E finalmente echeggia nell’antro la domanda del guru: “Meeeeee….. ma davvero ‘u figliu ‘e Albano sei?”. Tutto in purissimo dialetto di Manfredonia, dove in una –come dire - precedente incarnazione, il sant’uomo aveva esercitato la professione di elettrauto…
E qualcuno ha il coraggio di stare a sindacare se è vera oppure no? Ma certo che lo è! E poi scusate, ma in un paese che è stato capace di credere che qualcuno era pronto a comprarsi l’Alitalia per amore di bandiera, chi può avere il coraggio di mettere in dubbio financo l’esistenza di Babbo Natale? E questa storiella, in fondo, è molto più plausibile di quelle che ci vengono ammannite tutti i giorni, con la massima serietà, dai nostri TG nazionali. E in più fa ridere, mentre i TG fanno piangere, o più spesso cag….O no?

giovedì 3 luglio 2008

Un angelo con la penna in mano

Non mi piace dare pareri su libri che non ho ancora finito di leggere, ma questa volta mi tocca fare un'eccezione.
A dire la verità, Lo smeraldo dei garamanti - ricordi di un sahariano, di Theodore Monod, non non solo non l'ho ancora finito, ma avrò letto sì e no un centinaio di pagine, con una certa fatica oltretutto.
E allora?
Allora c'è che la fatica è colpa solo della mia ignoranza, perché il libro è un dono del cielo.
L'autore, prematuramente scomparso nel 2000 a 98 anni (certe persone dovrebbero stare tra noi per sempre!), è stato uno degli ultimi intellettuali di formazione ottocentesca, una di quelle persone allevate al senso del bello fin dalla più tenera età, e in possesso di una erudizione enciclopedica. A questo aggiungete uno spirito cristallino come una sorgente di alta montagna, e avrete un uomo letteralmente baciato dalla grazia. Naturalista per vocazione, umanista nel profondo, antimilitarista embedded nell'esercito francese al seguito del quale compiva le sue esplorazioni (era l'unico modo), Monod ha percorso in lungo e in largo il Sahara a dorso di cammello, dagli anni trenta fino ai novanta, portandosi sempre dietro una Bibbia e uno Shakespeare, oltre a qualche cassa di libri di botanica.
Il libro è disorganico, si tratta semplicemente di una raccolta dei suoi pensieri, delle sue fantasticherie e dei suoi disegni; ma che grazia insuperabile traspare da ogni riga, da ogni schizzo! Il periodare sembra cesellato, tanto è sempre appropriata la scelta delle parole, molte delle quali per noi desuete (di qui la fatica della lettura); un linguaggio ricchissimo pienamente sviluppato, al confronto del quale il nostro è monco, come sono monco e sgraziato io, adesso, mentre tento di rendere questa meraviglia con un vocabolario e una tecnica di scrittura che non valgono la prima elementare di quella generazione perduta di intellettuali enciclopedici.
E l'entusiasmo, la meraviglia di fronte alla natura; se ne può quasi sentire il profumo, come fosse una fragranza che si diffonde nell'aria mentre lo leggi. Ogni pagina gronda stupore e gratitudine per il creato, ciò che la maggior parte di noi perde non appena toglie i calzoni corti, e che questo signore si è portato dietro fin quasi a cent'anni (ma erano pochi, magari vivesse ancora, un uomo così). E c'è di più: c'è la fede, ma una fede che nemmeno per un attimo entra in conflitto con il rigore dello scienziato che Monod, pure, era. Ce ne fossero ancora oggi, di intellettuali così, la diatriba tra fede e ragione non sarebbe mai caduta in basso come è caduta, ridotta a disputa ringhiosa tra atei devoti e atei militanti. Probabilmente non sarebbe neppure stata riproposta: non chiedetemi come sia possibile, ma Monod é naturalmente scienziato e naturalmente religioso. E non emerge nessuna contraddizione da questa doppia valenza, anzi: le due dimensioni diventano una sola, si arricchiscono a vicenda.
Insomma: leggetelo. Magari armatevi di vocabolario, ma leggetelo.

giovedì 29 maggio 2008

Perché si scrive?

E va bene, cominciamo... Tanto, se aspetto di completare il layout, è probabile che andrò in pensione prima di riuscire a scrivere qualcosa.
E' strano, ho sempre scritto per qualcun altro: lettere, post su altri blog, relazioni di lavoro; e adesso mi ritrovo a scrivere per me, almeno finché questo blog non avrà preso forma. Ci sta bene una piccola riflessione.
Tanti anni fa vidi un bellissimo film di cui purtroppo non ricordo il titolo, che girava tutto intorno a una domanda che un musicista si sentiva continuamente rivolgere: per chi si suona? La risposta implicita - mi è sembrato di capire - è che si suona sempre per qualcuno, e così penso io della scrittura: si scrive per comunicare idee, se si ha talento per trasmettere emozioni; si scrive alla persona amata il proprio amore, o la propria rabbia se l'amore declina (chi non l'ha fatto?); al limite, si scrive per raccontare un fatto. E poi sì, si scrive anche per se stessi, cosa che io a dire la verità non ho fatto mai. E adesso è paradossale che io inizi a tenere il mio blog proprio scrivendo per me, non avendo la presunzione di avere alcun lettore, e lo faccia su un mezzo che per sua natura è votato alla massima condivisione. Mi sarà certamente utile, potrò fare un po' di introspezione e magari asciugare la mia prolissità. E quindi, caro il mio rarissimo lettore, se ti trovi a passare di qui, dai un'occhiata: non ho niente di particolare da narrare se non qualcosa di me, cioè di un uomo; e in fondo, lo sai, questo vuol dire che sto parlando anche di te.